La comunicazione della diagnosi

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La comunicazione della diagnosi di demenza: comunicare una cattiva notizia

I protocolli di comunicazione delle cattive notizie più conosciuti sono nati prevalentemente nell’area oncologica, per patologie a prognosi infausta e con aspettativa di vita limitata. Nel caso del disturbo neurocognitivo, spesso l’aspettativa di vita è lunga, non ci sono molteplici opzioni terapeutiche da discutere e la persona può avere difficoltà ad utilizzare le informazioni ricevute a causa di una scarsa consapevolezza o per la presenza di deficit cognitivi.

La complessità della comunicazione della diagnosi di disturbo neurocognitivo è dovuta a diversi fattori riguardanti “le difficoltà di tipo cognitivo ed emotivo del malato nel recepirla data la progressiva perdita cognitiva” e “lo sgomento per la incurabilità della patologia, il senso di vergogna suscitato da un identificarsi con una patologia generalmente associata alla perdita di dignità personale e di ruolo sociale”.

La resistenza dei medici e dei familiari

La resistenza da parte dei medici nel dare cattive notizie è dovuta a diversi fattori (la paura di generare dolore, l’identificazione con la persona con declino cognitivo, la paura di sentire ed esprimere emozioni, la collusione con i famigliari ecc.. ). Nel caso del disturbo neurocognitivo si aggiungono motivazioni specifiche che si appellano soprattutto al principio bioetico della “non maleficenza” e, in particolare, al timore di nuocere alla persona per la mancanza iniziale di diagnosi certa e di terapie risolutive, per lo stigma associato alle demenze e per l’incerta capacità di comprensione del malato.

La riluttanza nel comunicare la diagnosi di disturbo neurocognitivo è trasversale sia tra i medici di base che tra gli specialisti; tra questi, i motivi che inducono a omettere la realtà riguardano soprattutto proprio il timore di far perdere le speranze alla persona e ai famigliari. Per superare lo stigma spesso gli specialisti usano termini come “dimenticanze”, “confusione”, “la memoria non funziona bene come prima”. Anche i familiari, pur con differenze da paese a paese, preferiscono che al malato non venga esplicitata la diagnosi. In uno studio italiano, tutti i parenti riferiscono che non si debba dare la diagnosi completa di demenza ma riportare, al massimo, la presenza di “problemi di memoria”.

I dati sono limitati ma tendono tuttavia attualmente a indicare che i caregiver hanno più problemi di adattamento delle persone stessi alla diagnosi probabilmente per il forte impatto sulle proprie responsabilità, in termini di sacrificio personale e incertezza.

Il desiderio delle persone con disturbo neurocognitivo

Gli studi sugli effetti dovuti alla tardiva comunicazione della diagnosi di disturbo neurocognitivo sulle persone interessate e sui caregiver sono carenti, anche se è verosimile che la percezione che “qualcosa non va” abbia conseguenze negative, in termini di incertezza, ansia, paura e depressione sia sui pazienti che sui familiari. Pertanto, quando la diagnosi viene effettuata, gli interessati spesso riferiscono un senso di sollievo.  Sembra che i pazienti indenni da alterazioni cognitive e i pazienti con lievi disturbi di memoria, nella grande maggioranza dei casi (70-90 %), preferiscano essere informati della diagnosi. Una mancata comunicazione può inoltre disorientare, confondere la persona e rompere il legame di fiducia con il medico.  Al contrario sembra che conoscere la diagnosi non cambi i sintomi depressivi, ma faccia diminuire significativamente l’ansia, con probabili ricadute sul senso di autoefficacia. 

Le motivazioni alla comunicazione della cattiva notizia

Esistono motivazioni etiche, cliniche, deontologiche e giuridiche che spiegano la necessità di comunicare la diagnosi quanto più tempestivamente possibile al malato e alla famiglia, già dalle prime fasi.

  • Dal punto di vista clinico le motivazioni riguardano, da un lato la necessità di raccogliere un consenso informato all’uso di marcatori e di farmaci sperimentali per identificare fasi sempre più precoci di malattia, dall’altro il dovere di operare in apertura e franchezza con il malato e la famiglia per creare quell’alleanza necessaria ad un percorso terapeutico e di cura lungo e complesso.
  • Dal punto di vista etico, sostenere una comunicazione tempestiva della diagnosi è il principio di autonomia, per il quale il malato ha diritto di operare scelte sul proprio futuro e di agire secondo le risorse residue in termini di consapevolezza e di capacità di agire. Si nuoce infatti al malato nel caso voglia sapere e non gli venga comunicato nulla, o nel caso in cui la notizia venga comunicata in modo inadeguato, non tenendo conto dei suoi bisogni, tra cui quello di conoscere e comprendere ciò che gli accade per pianificare il proprio futuro.
  • Infine, dal punto di vista giuridico, la Legge 219/2017 è chiara nel ribadire il principio di autodeterminazione della persona in merito all’accettazione o al rifiuto di accertamenti, scelte terapeutiche o singoli trattamenti (art. 1). Sempre la legge richiama la possibilità del malato di operare una pianificazione condivisa delle cure (art. 5) – possibile solo se una corretta comunicazione della diagnosi è stata fatta – ma anche, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, di esprimere la propria volontà su ciò che vorrà o meno gli venga fatto in materia di indagini o terapie, attraverso le DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento, art. 4). In tale contesto va considerato come una diagnosi vaga lasci incertezza impedendo a persone ammalate e familiari di acquisire informazioni rilevanti riguardo la malattia e riguardo la pianificazione del futuro, includendo in questo anche le direttive di cura anticipate.
  • Le principali società e associazioni scientifiche che si occupano del tema – AIP (Associazione Italiana di Psicogeriatria), SIN (Società Italiana di Neurologia), SIGG (Società Italiana di Gerontologia e Geriatria) e la SIP (Società Italiana di Psichiatria) – affermano l’importanza di ascoltare e rispettare quanto più possibile le scelte della persona affetta da demenza, anche espresse anticipatamente.

Modalità, tempistiche e destinatari della comunicazione

La preparazione del medico storicamente si è maggiormente focalizzata sulle capacità tecniche piuttosto che sulle abilità di comunicazione o sulla scienza biomedica. Per poter rispettare i principi etici della non maleficenza e dell’autonomia nella comunicazione della diagnosi della demenza, è indispensabile poter avere una valutazione della consapevolezza e della capacità di agire del malato, aspetti che non possono essere ben colti dal MMSE o da singoli test neuropsicologici ma devono invece essere definiti nel corso della relazione con il malato, anche attraverso il contributo dello psicologo: l’insight infatti non può esaurirsi nella conoscenza da parte del malato delle proprie capacità, come la capacità d’agire non si può far coincidere con la valutazione delle sue competenze.

Ancora non solo le diverse forme di disturbo neurocognitivo ma anche la loro espressione nella particolarità della persona e del contesto in cui è inserita portano a definire la comunicazione non come un fatto puntuale, ma come un percorso in cui il clinico deve cercare sempre feedback puntuali per riadattare le informazioni date. È inoltre utile seguire le linee guida di alcuni dei protocolli più conosciuti che ben guidano il clinico verso i passaggi da seguire nel comunicare una cattiva notizia. Tutti richiamano la necessità di preparazione da parte del clinico, l’importanza di iniziare a costruire il processo comunicativo nella relazione terapeutica già dall’iter diagnostico nonché la necessità di fornire supporto una volta che la diagnosi è stata data. Il modello di Buckman, in particolare, comprende 6 stadi, utili come guida al clinico per condurre una comunicazione “personalizzata”:

  • mettere a punto la comunicazione (raggiungere chiarezza interna su ciò che si vuole dire);
  • valutare quanto la persona conosce già della propria condizione;
  • capire quanto e se la persona vuole “sapere” e ottenere il consenso alla comunicazione (l’affidamento ad un fiduciario se lo desidera);
  • fornire le conoscenze e le informazioni (a piccole dosi e verificando via via quanto la persona ha compreso);
  • rispondere alle sue emozioni che inevitabilmente seguiranno la comunicazione (identificandole, non rifuggendole, dando disponibilità per un momento di sostegno successivo);
  • riepilogare e condividere un piano d’azione.

Questo modello può essere agevolmente utilizzato nelle prime fasi con la persona e, sempre, con i familiari.

Il tempo utilizzato in questo processo, come citato anche nella recente Legge 219 (art. 1), è “tempo di cura”. Va dunque valutato il tempo in cui è utile comunicare e il tempo necessario alla persona per comprendere e utilizzare quanto gli è stato detto, anche con disponibilità di sostegno psicologico successivo.

La tempestività della comunicazione va inoltre ben distinta dalla precocità dell’informazione. Il clinico non deve disorientare la persona e i familiari con i propri dubbi, ma condividere tempestivamente le possibilità diagnostiche nel momento in cui le alterazioni cognitive e comportamentali impattano sulle loro vite e le vite di chi sta attorno a loro.

Conclusioni

Comunicare la diagnosi di demenza significa per il clinico capire le capacità della persona di comprendere, rielaborare e sostenere rispetto alla propria malattia. Significa inoltre “coniugare il diritto alla verità con il diritto alla speranza” (CBN 2014) tenendo conto dei benefici che essa può portare: la comprensione da parte della persona del proprio vissuto, l’opportunità di accedere a servizi appropriati e, non ultimo, la pianificazione della propria vita (CBN 2014). Appare allora evidente che la comunicazione di questa diagnosi costituisce un processo in cui persone con declino cognitivo e familiari potrebbero aver bisogno di più incontri per comprendere appieno le implicazioni di tale comunicazione.

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