Anticolinesterasici

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Indicazioni

Studi neuropatologici e di immagine hanno identificato significativi deficit del sistema colinergico sia nei casi di demenza di Alzheimer (a partire dall’area ippocampale), sia soprattutto nei casi di demenza associata alla malattia di Parkinson (proencefalo basale e tronco encefalico), con coinvolgimento secondario dell’attività colinergica corticale e correlazione diretta con la gravità del deficit cognitivo[1]. Gli inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi agiscono inattivando l’enzima che degrada il neurotrasmettitore, incrementando quindi il tempo in cui l’acetilcolina è presente nello spazio sinaptico. Gli anticolinesterasici attualmente impiegati sono donepezil (compresse rivestite o orodispersibili da 5 e 10 mg, con dose massima sperimentata in studi clinici di 23 mg/die), rivastigmina (capsule da 1.5, 3, 4.5 e 6 mg, soluzione orale 2 mg/ml somministrate due volte al giorno fino ad un massimo di 12 mg/die, cerotto transdermico da 4.6, 9.5 e 13.3 mg/24 ore) e galantamina (capsule da 4, 8 e 12 mg somministrate due volte al giorno fino ad un massimo di 24 mg/die o capsule da 8 mg a rilascio prolungato (RP), 16mg RP e 24mg RP (una volta al giorno).

Introdotti in commercio quasi 20 anni fa, dato il costo elevato, sono stati inizialmente sottoposti ad un uso controllato da parte di centri specialistici che ne prevedevano l’uso secondo i criteri dello studio osservazionale “Cronos” coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. Già da alcuni anni i costi farmacologici sono stati largamente ridimensionati con la scadenza del brevetto industriale e l’uso di farmaci generici, ma ciò nonostante prevedono comunque, per essere erogati a carico del SSN, la stesura di un Piano Terapeutico da parte dei CDCD secondo la nota ministeriale 85.

La grande maggioranza dei trial clinici che hanno confrontato gli anticolinesterasici con il placebo sono stati condotti per un periodo non superiore ai 6 mesi e tutti hanno dimostrato un modesto effetto benefico sulle prestazioni cognitive: miglioramento di 2.4 punti di aumento nell’ADAS-cog e 1.37 punti di aumento al MMSE, vale a dire una differenza appena percettibile dal punto di vista clinico[2]. Gli anticolinesterasici hanno anche dimostrato un effetto positivo sull’autonomia funzionale e sull’assessment globale definito da intervista strutturata dello specialista con input del caregiver, mentre non sembrano essere significativamente influenzati i disturbi comportamentali, probabilmente a causa dei diversi criteri di inclusione delle coorti di pazienti inseriti negli studi clinici.

Importanti Istituti di verifica dell’efficienza dei servizi sanitari come il NICE hanno evidenziato un favorevole rapporto costo/efficacia degli inibitori della colinesterasi nel trattamento della demenza di Alzheimer lieve-moderata, senza una significativa differenza tra i vari principi attivi [3], anche se è stato messo in evidenza come nel “mondo reale” la formulazione transdermica di rivastigmina incontri maggiore preferenza sia nei pazienti che nei caregiver, con garanzia di un incremento dell’aderenza al programma terapeutico[4].

Nausea, vomito, sogni vividi (riportati solo per donepezil e scongiurati con la somministrazione mattutina del farmaco) e crampi agli arti inferiori sono gli effetti collaterali più frequenti (fino ad un massimo del 20% dei casi) registrati nei trial clinici randomizzati e controllati verso placebo; tali disturbi sono solitamente ben tollerati e si autolimitano nell’arco di 1-2 settimane. Altri effetti collaterali possibili, con frequenza nettamente inferiore rispetto ai precedenti, sono rappresentati da bradicardia (1%), specie nei pazienti che già assumono farmaci bradicardizzanti, sincope con cadute (2-12%), stanchezza (1-9%), cefalea (3-17%) e sensazione di vertigine-instabilità (2-20%)[5].

Controindicazioni

Per limitare al massimo l’incidenza degli effetti collaterali si consiglia di titolare progressivamente la dose del farmaco scelto, iniziando dal dosaggio più basso che andrà mantenuto per 4 circa settimane prima di un suo ulteriore incremento. Il potenziale beneficio di dosi maggiori di anticolinesterasici rispetto alla posologia normalmente in uso deriva da osservazioni “in vivo” evidenzianti che l’impiego di 10 mg di donepezil comporta una inibizione solo del 19-27% dell’attività cerebrale corticale dell’acetilcolinesterasi determinata con PET[6]. Sulla base di queste osservazioni sperimentali, è stato condotto uno studio clinico su 1371 pazienti trattati con 23 mg di donepezil rispetto alla dose standard di 10 mg: è stato riscontrato un miglioramento di 2.2 punti/100 nella Severe Impairment Battery nei pazienti trattati con il dosaggio superiore, effetto questo clinicamente non rilevante e ottenuto a prezzo di un raddoppio dell’incidenza di effetti collaterali (18.6% vs 7.9%)[7]. Uno studio successivo non ha però confermato tali risultati[8]. Il dosaggio di 23 mg non è disponibile in Italia, mentre lo è negli Stati Uniti.

Nel trial OPTIMA condotto in 567 pazienti con demenza di Alzheimer lieve-moderata [9], si è dimostrato che la terapia con rivastigmina transdermica al dosaggio di 13.3 mg/24 ore ha una maggiore efficacia rispetto al dosaggio massimo disponibile di 9.5 mg/24 ore nel mantenimento dell’autonomia nelle attività strumentali complesse (IADL dopo 48 settimane) e del profilo cognitivo (dopo 24 settimane), senza un incremento significativo della frequenza degli effetti collaterali. Da questo studio, non più confermato in seguito, discende l’indicazione che nei pazienti che non raggiungono la stabilizzazione del profilo cognitivo e funzionale in un periodo di 48 settimane può essere proposta la terapia con rivastigmina in formulazione transdermica al dosaggio di 13.3 mg/24 ore.

Il trial DOMINO [10] condotto in 295 soggetti con demenza di grado moderato severo ha dimostrato che l’interruzione della terapia con donepezil (sostituito da placebo) determina un significativo declino sia del profilo cognitivo (-1.9 nel punteggio MMSE) che di quello funzionale, un incremento dei sintomi neuropsichiatrici e un raddoppio del rischio di istituzionalizzazione nell’anno successivo alla sospensione della terapia. Tale studio fornisce quindi una risposta parziale a quanto appare prassi comune nella pratica clinica, vale a dire la continuazione della terapia con anticolinesterasici ben al di là del periodo di tempo indicato nei trial clinici randomizzati controllati (al massimo 12 mesi).

Gli studi in cui sono state messe a confronto le tre molecole non hanno dimostrato differenze significative nell’efficacia, ma eventualmente solo un diverso tipo e frequenza di effetti collaterali[11]. Non stupisce quindi che un numero consistente di soggetti (sino al 50%) possono beneficiare sia in termini di efficacia che di tollerabilità dal passare da un trattamento con un tipo di inibitore della colinesterasi ad un altro.

Gli anticolinesterasici possono essere anche proposti nella terapia della demenza a corpi di Lewy, come indicato in due trial clinici in doppio cieco, randomizzati e controllati con placebo in cui sono stati impiegati Rivastigmina (6-12 mg) [12] e Donepezil (5-10 mg) [13], ottenendo un miglioramento sul piano cognitivo e una riduzione delle allucinazioni visive, con apprezzabile profilo di sicurezza. Successive metanalisi hanno confermato i benefici della terapia con anticolinesterasici nei pazienti con demenza a corpi di Lewy e nel Parkinson-demenza.

Memantina

Memantina è un antagonista non competitivo del recettore N-metil-D-aspartato (NMDA) che blocca gli effetti dei livelli elevati di glutammato sulla neurotrasmissione, prevenendo l’azione dell’aminoacido eccitatorio sui livelli tossici intracellulari di ioni calcio. La disfunzione glutamatergica sembra essere implicata nella patogenesi della malattia di Alzheimer, ma anche nella patogenesi delle varie forme di parkinson-demenza.

Il dosaggio massimo è di 20 mg al giorno, somministrati con titolazione progressiva iniziando dal dosaggio minimo di 5 mg. Gli effetti collaterali del farmaco sono molto limitati e sono riferiti, rispetto al placebo, solo una maggiore incidenza di vertigine-instabilità (5-7%), cefalea (6%), stipsi (3-5%) e diarrea (5%); in pazienti con insufficienza renale grave (clearance della creatinina 5-29 ml/min) il dosaggio massimo è di 10 mg/die in due somministrazioni.

Il ruolo del farmaco nel trattamento dei pazienti con demenza proviene da studi clinici randomizzati e controllati verso placebo, riassunti in metanalisi[14]. Si evidenzia come i pazienti con demenza moderata-grave trattati con memantina manifestino un lieve, ma statisticamente significativo beneficio sul versante cognitivo, sul mantenimento dell’autonomia nelle ADL e sul controllo dei disturbi del comportamento.

Allo stato attuale delle evidenze scientifiche, memantina non si è dimostrata efficace, in un periodo di trattamento superiore ai 6 mesi nel rallentare la progressione del deterioramento cognitivo lieve verso la demenza conclamata. Il farmaco resta un’opzione per il management dei pazienti con deterioramento cognitivo moderato che non possono assumere anticolinesterasici o di quelli con deterioramento severo.

Due gruppi di consenso hanno cercato di stabilire se la terapia di combinazione memantina-anticolinesterasici possa rappresentare un beneficio nel trattamento della demenza di grado moderato-severo, giungendo alla conclusione che tale associazione è in grado di determinare un piccolo ma significativo beneficio sull’assessment globale, sulle performances cognitive e sul controllo dei disturbi neuropsichiatrici[15,16].

L’efficacia di memantina nel trattamento farmacologico della demenza a corpi di Lewy è stata valutata in due trial clinici[17,18] che hanno rilevato un miglioramento dell’impressione clinica globale, limitata però al miglior controllo dei sintomi comportamentali, senza altri miglioramenti in altri domini clinici[17].

Conclusioni

Dai dati disponibili in letteratura, gli inibitori della colinesterasi hanno un ruolo di limitata efficacia, ma clinicamente importante sui domini cognitivi e funzionali in tutti gli stadi della demenza di Alzheimer, specialmente nelle fasi iniziali con deterioramento lieve-moderato. Vista la presenza di effetti collaterali il loro impiego deve essere monitorato nel tempo e riconsiderato, senza essere escluso a priori, nei pazienti in cui si osserva una progressione del deficit cognitivo fino agli stadi moderato-gravi. La sospensione dei farmaci in fasi avanzate di malattia può comportare un peggioramento del quadro e accelerare l’istituzionalizzazione del paziente.

Memantina ha dimostrato un effetto positivo di modesta entità sui domini cognitivi nella demenza di gravità moderata-severa.

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